lunedì 15 ottobre 2012

Succede proprio dietro l'angolo

I punti qui sono due.
Primo. A un certo punto un mucchio di gente intelligente ha creato questa cosa che si chiama tecnologia informatica, che ci permette: di scrivere e cancellare senza sprecare il nastro correttore della macchina; di scrivere lettere una sola volta e inviarle in n. copie con un clic; di pubblicare da soli le nostre boiate senza che arrivi qualcuno (caporedattore, relatore di tesi, principale, capo, fratello, amica del cuore, marito, moglie, amante, vicino di casa, mamma, tata, Fata Turchina) a dirci "In tutta onestà, datti all'ippica che questo pezzo fa schifo."; di leggere che cosa succede dall'altra parte del mondo senza dover richiedere i giornali australiani al prestito inter-bibliotecario nazionale.
Secondo. Alcuni - o forse parecchi- di noi non sono perennemente connessi con il mondo. La sottoscritta, per esempio, si scollega il venerdì alle sei e rientra in contatto con l'Internettame vario solo il lunedì mattina (scartoffie da ufficio e necessità di officina permettendo). Se ciò sia un bene o un male, non vale la pena discuterne qui.

Dati questi due punti, arriviamo a una ben nota conclusione: se leggendo un tweet posso scoprire che cosa succede nel bush australiano o in un piccolo centro dell'Uganda, ne consegue che tutto il mondo, quel globo terracqueo che tanto tempo fa si circumnavigava in decenni e che faceva in modo che quando partivi non sapevi se avresti mai rivisto tua moglie e conosciuto i tuoi nipoti, sia sempre più piccolo e interconnesso e quello che succede in Grecia influenza in pochissimo quello che succede in Spagna, Gran Bretagna, Turchia o vattelapesca.
Infine, conseguenza dell'essere connessi solo in orari d'ufficio (lun-ven, 8-18), significa che il fine settimana le notizie arrivano in modi diversi dal solito.

Nel mio caso, due sabati fa una cattiva notizia mi è caduta tra capo e collo mentre facevo la spesa.

Ero in coda alla cassa, chiedendomi se il tizio che avevo incontrato dieci minuti prima aveva fatto finta di non vedermi perché era con una fidanzata gelosa o perché gli stavo talmente lì che aveva preferito trapassarmi come fossi aria. Per evitare di nuovo un incontro del genere, mi son detta, diamo una scorsa al Corriere. E la cattiva notizia era lì, in basso al centro: Arrestata a Cuba la blogger del dissenso. No, scusa, come? Hanno arrestato Yoani? Ma porch'ilmondo, come sarebbe a dire che hanno arrestato Yoani?
Breve excursus: io adoro Yoani. Ne avevo sentito parlare durante gli anni dell'università, quando mi ero fatta prendere da un'insana passione per l'America Latina. Quando ho aperto il profilo Twitter lei è stata una delle prime persone che mi avevano consigliato. Due giorni dopo aver iniziato a seguirla, lei ha iniziato a seguire me. E, anche se so benissimo che probabilmente segue tutte le persone che la seguono o che, più probabilmente, non può usare l'account twitter e quindi in realtà non legge niente di quello che scrivo, la cosa mi ha gasato un sacco.

Tornata a casa, ho letto gli articoli e mi sono fatta prendere un senso di tristezza. Avrei volentieri squadernato il pc e scritto qualcosa, qualunque cosa, ma l'avevo lasciato al lavoro. Il pensiero di lei, e di quello che le stava capitando di là dall'oceano, mi ha accompagnato per tutto il resto del fine settimana.
Il lunedì, poi, sono andata a cercare notizie, e l'abisso mi si è aperto qui, proprio sul pc da cui sto scrivendo: la notizia del rilascio, il racconto dell'accaduto.
Pensavamo che i sequestri improvvisi, le violenze, fisiche e verbali, fossero finiti con la Giunta Militare argentina o con Pinochet in Cile e fosse solo un problema dell'Iran degli ayatollah? No, miei cari, ci sbagliavamo: noi prendiamo i nostri begli aerei charter e ci facciamo scaricare su una bella spiaggia caraibica senza voler sentire che, oltre il muro del villaggio, c'è gente che sta decisamente meno bene di noi. Gente che torna a casa (esattamente come fece Yoani, che all'inizio del millennio risiedeva in Svizzera), si vede stracciare il passaporto e negare qualunque permesso di uscire dal Paese. Anche se sei una giornalista affermata, che ha ricevuto riconoscimenti a destra e a manca. Anche se il tuo Paese dovrebbe portarti in palmo di mano.

Gente, guardiamoci in faccia: altro che "Not In My Backyard". Abbiamo ancora la dittatura dietro casa e quando ci passiamo vicino facciamo finta di non vederla.

E mi sa che, se mai il governo cubano dovesse leggere questo post e risalire alle mia vera identità, Cuba non la vedrò mai. Ma pace.


Per saperne di più: Yoani cura il blog Generaciòn Y e ha pubblicato i libri "Havana Real" e "Cuba Libre" .

1 commento:

  1. Purtroppo questa è una realtà che molti vedono lontana,ma è più vicina di quanto si possa pensare.
    È vergognoso pensare quanti pochi diritti un paese possa concedere e che con una decisione ti possano "intrappolare"in un paese e negarti il diritto sacrosanto di dire quello che pensi!

    http://onlyastorminacoffeecup.blogspot.it/

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Perché mica si può sempre andare a Londra a sfogarsi allo Speakers' Corner.