
professore/mentore dell'università; il suddetto mentore che ha qualcosa da nascondere; una storia d'amore tra un trentenne e una ragazzina che prima sembra una santarellina e poi una poco di buono e poi diventa una povera vittima. Una cittadina del New England affacciata sull'oceano, dove si conoscono tutti e dove tutti hanno qualcosa da nascondere.
Altro ingrediente necessario: l'autore della storia, che deve essere pur'egli uno scrittor giovane e fotogenico, sì da risultare affascinantissimo tanto in foto quanto seduto al tavolo della presentazione nella grande libreria.
Aggiungeteci una vittoria al Prix Goncourt des lyceens e un altro premio che ora non ricordo et voilà, ecco qui, ben confezionato, un caso editoriale che farà guadagnare all'autore belloccio, in questo caso il signor Joel Dicker, e alla casa editrice, in questo caso Bompiani, qualche bel soldino.
Peccato che - e adesso comincia la parte demolitoria- la storia, che si potrebbe esaurire in un bel romanzetto di centocinquanta pagine, venga stiracchiata, allungata, lievitata fino alla produzione di un librone grande, grosso, scomodo e lungo più o meno come la Bibbia. Senza avere, ovviamente, né la varietà né la profondità né il fascino della Bibbia. La lunghezza spropositata è il primo atto di hybris (ma quanto erano avanti i greci, usando una parola sola per il concetto della "superbia punita degli dei"?): con quest'indagine stiracchiata, il bel Dicker dichiara a caratteri cubitali: "Sherlock Holmes, Miss Marple, Hercule Poirot e compagnia: puah, voi e quei romanzetti veloci veloci: mo' vi faccio vedere io come si scrive un giallo" e tira fuori un polpettone infinito che ha per protagonista un inetto totale. Il suddetto polpettone è tanto avvincente che, arrivati a pagina duecento, venga voglia di piantare lì tutto e usare il cicciotto tomo come tavolino per la ciotola del gatto.
Secondo atto di hybris, sempre collegato alla lunghezza eccessiva e alla trama stiracchiata: signor Dicker, i lettori non sono scemi. Si accorgono se l'autore fa in modo che il protagonista si "dimentichi" di fare delle domande fondamentali; e il fatto stesso che il protagonista si riveli ancora più inetto ed ingenuo e facilone di quanto già non sia "dimenticandosi" di approfondire certi particolari non lo rende più simpatico, anzi: farà dire al lettore qualcosa come "Sì, è chiaro: sei scemo. E a me non interessano le storie da scemi."
Terzo atto di hybris: i personaggi. Ma 'sti personaggi, signor Dicker? La quindicenne misteriosa che, nel pieno degli anni Settanta, scimmiotta la casalinga perfetta? Il mentore che, con la scusa di far fare al proprio protetto una sottospecie di percorso di consapevolezza gli nasconde di aver plagiato l'opera di un altro? E la conclusione di questo bel percorso di consapevolezza quale potrebbe mai essere? Ma ovviamente proprio quel "trovati una brava ragazza, sposatela e figliate come conigli" che la madre del protagonista -ovviamente ebrea, perché vogliamo non approfittare dello stereotipo della madre ebrea in un romanzo che ha bisogno di lievitare sempre più?- continua a ripetergli da pagina uno a pagina infinito.
Insomma, non è mia abitudine stroncare i romanzi (Libraia è una buonista e non ama le polemiche, lo sapete). Del resto, però, parlar male di qualcosa o di qualcuno è un ottimo modo per far sfiatare l'aggressività quando ci si sente come una pentola a pressione sul punto di scoppiare. Quindi, ecco a voi l'insindacabile giudizio di una Libraia A Pressione: no, no, no e ancora no.
Se volete il libro per l'isola deserta, non è certo questo. Buttatevi su Il Signore degli Anelli, o sull'Anna Karenina di Tolstoj. L'impresa vale il risultato, fidatevi.
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Perché mica si può sempre andare a Londra a sfogarsi allo Speakers' Corner.