martedì 17 giugno 2014

Non ci sono parole, e quando ci sono sono stupidaggini

Insomma, questa è una riflessione collaterale ed estemporanea legata alla strage di Motta Visconti, in cui un padre, più o meno di punto in bianco, ammazza la famiglia e poi se ne esce a guardar la partita.
Un giorno di ordinaria follia in salsa lombarda, insomma.

Non voglio parlare dell'orrore o sentenziare qualcosa. In tutto questo bailamme, ci manca solo l'inutile punto di vista di una Libraia qualunque.

Però leggo questo articolo de Il Giornale e, mentre penso che Montanelli probabilmente starà cercando di strappare via il coperchio della bara a unghiate, mi viene in mente un lontano episodio.

Era l'autunno del 2001 e io seguivo un corso tenuto da un sociologo in ascesa. Nessun dubbio sulle sue capacità accademiche, qualcuno in più sulla sua indipendenza di giudizio. Ecco, infatti, che cosa era successo.

Prof:" Bene, ora dobbiamo introdurre il concetto di capitale culturale. E' più semplice farvelo capire, però, andando sul pratico.
Dunque, vediamo.... rispondete per alzata di mano.
C'è qualcuno di voi che ha i genitori che lavorano in proprio?"

[Libraia alza la mano, con qualcun altro]

"Meglio ancora, c'è qualcuno i cui genitori hanno una piccola azienda?"

[Libraia  alza la mano]

"Ah, ehm...C'è qualcuno di voi che abita in una villetta?"

[E Libraia, ancora memore del sabato passato a tagliare il prato, alza la mano.]

Prof. [interdetto] "Ah, bene. Qualcuno c'è. E vediamo... dove abitate? In Brianza?"

[E Libraia ri-alza la mano.]

Prof. [ancora più interdetto] "Ah, ecco. No, allora facciamo così: andiamo sull'impersonale, è meglio. Immaginatevi una famiglia in cui i genitori hanno una piccola azienda, hanno lavorato per comprarsi la villetta, chessò.. nella bergamasca, o in Brianza, o nel bresciano. Una villetta in una zona tranquilla, lontana dal traffico, magari con i nanetti in giardino.
Ecco, quella famiglia avrà, inevitabilmente, un bassissimo capitale culturale. Ai genitori non importerà che i figli studino, vorranno vederli piegare la schiena in azienda. Ai genitori non importerà della studio, perché lo riterranno inutile e non remunerativo. Non accetteranno che i figli siano diversi da loro, e ciò proprio per questo motivo: il bassissimo capitale culturale impedirà loro di rendere i figli degli individui indipendenti; loro vorranno delle piccole copie di se stessi, dedite a lavorare, fare figli e vivere nella mediocrità."

E io ho pensato alla mia famiglia, proprio quella che vive nella villetta.
Ho pensato a mio padre, che ha fatto le scuole serali perché in casa non c'erano soldi e lui doveva andare a guadagnare. Che ha provato a laurearsi in matematica all'università serale e non ci è riuscito, nonostante ci abbia provato con tutte le sue forze.
Ho pensato a mia madre -licenza media inferiore- che è un'esperta di opera lirica e compra libri come se fossero pane.
Ho pensato a mia zia, che per guadagnarsi il pane ha barattato una vita da professoressa di Lettere con una da segretaria d'azienda e, per rifarsi della perdita, ha consacrato il suo tempo libero alla musica, al teatro, alla lettura.

Ho pensato a tutti loro, che hanno unito le forze non tanto per farmi studiare, ma per farmi diventare un individuo dal pensiero indipendente, autosufficiente e libero. E ho mandato a quel paese quel presunto accademico, che, esattamente come l'articolo sopra citato, ha dimostrato con un semplice esempio di avere un'apertura mentale (e, ironia della sorte! un capitale culturale) identico a quella di un paramecio.

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Perché mica si può sempre andare a Londra a sfogarsi allo Speakers' Corner.